Sto parlando della settimana in Russia, dal 12 al 17 settembre.
Viaggio organizzato dalla nostra Associazione per il quinquennale appuntamento con le città nella zona del fiume Don, dove si svolse la tragica ritirata del gennaio 1943: a Birjuc, per una festa cittadina che sembrava (in piccolo, ovviamente) l’Adunata Nazionale; a Nikolajewka, per l’inaugurazione del nuovo ponte sul fiume Valuj, donato alla città dall’ANA e costruito dagli Alpini bresciani; a Rossosch, per il 25esimo anniversario dell’Asilo Sorriso, la prima realizzazione di un’opera di amicizia con quelle popolazioni. Tre momenti pubblici, organizzati, formali, con grande partecipazione della popolazione. I trecento Alpini presenti hanno rappresentato l’intera ANA, a supporto del Presidente e delle altre cariche nazionali presenti.
Questa è stata la parte che si può chiamare “viaggio”.
Ma c’è stata l’altra parte, quella che va chiamata “pellegrinaggio”: quella delle motivazioni più profonde che hanno spinto quei quasi trecento Alpini, anche giovani, a investire tempo e soldi per un viaggio che certamente non si preannunciava riposante.
In breve: non tutti questi Alpini, ma certamente la maggior parte, non si sono lasciati sfuggire l’occasione di visitare i luoghi nei quali un loro congiunto era rimasto vittima della guerra: morto, oppure disperso, chissà quando e dove, oppure ferito, in qualcuna delle battaglie che costellarono i giorni della ritirata.
Così è stato per il sottoscritto, per il quale il pellegrinaggio è stato a Warwarowcka, dove uno zio paterno, della Divisione Vicenza, era stato fatto prigioniero con i resti della Divisione e del Battaglione Morbegno; poi c’era un Alpino, medico, studioso della storia militare della campagna di Russia, che accompagnava la moglie, che di zii paterni ne aveva persi tre, tutti e tre Alpini, tutti e tre dispersi durante la ritirata. C’era una signora 86enne, accompagnata da una figlia e da due Alpini di famiglia – mariti delle figlie – sorella di un disperso in quella stessa battaglia. E un altro Alpino, figlio di un reduce, gravemente ferito a Nikolajewka e riuscito a ritornare grazie all’aiuto di un Alpino compaesano. E ancora: un Alpino giovane, appena finito l’anno di ferma volontaria, con il quale la comunicazione è stata velocissima: “perché sei venuto qui” “perché la Russia è sacra” “perché è sacra” “perché mio nonno….”. Mi fermo, ma potrei continuare con questo elenco.
Cosa significa questo? Cosa ha creato questa comunanza tra tanti partecipanti al viaggio che non si erano mai visti prima?
Significa che la sintonia tipica delle belle amicizie qui si è creata subito, mettendo in comune le “reliquie” che ciascuno si era portato dietro: le lettere, le fotografie, magari lo stato di servizio recuperato dopo la guerra, le testimonianze realizzate negli anni per ricordare quei familiari scomparsi in Russia.
Così ci sono stati i momenti celebrativi ufficiali, festosi, accennati sopra. Poi quelli storici (interessantissimo l’incontro con l’85enne prof. Alim Morozov, che ha ricostruito in estremo dettaglio tutti i momenti della guerra alpina in Russia). Ma tra tutti spiccano i momenti più silenziosi, e più lunghi, e certamente più significativi, in cui è prevalsa l’osservazione dei luoghi in cui i nostri cari sono passati in quelle condizioni terribili e la meditazione sulla loro sofferenza, e sulla loro morte solitaria.
Ed ecco allora perché il viaggio si è trasformato in pellegrinaggio: perché non è stato soltanto la soddisfazione di una curiosità sui luoghi – ben consapevoli che le città e le (poche) strade sonio ovviamente cambiate in modo sostanziale, mentre la campagna è rimasta immutata con le sue infinite ondulazioni e le famose ‘balke’ – ma perché è stato occasione di rendere onore e memoria a chi non ha avuto la sorte di ritornare.
E tutti ci siamo ritrovati concordi nel vivere questo pellegrinaggio, rendendoci conto che è stata una grossa fortuna poter rendere un ultimo onore ai nostri defunti, come se settantacinque anni non fossero passati, come se la scomparsa di questi nostri parenti fosse avvenuta ieri, rivivendo noi stessi il dolore vissuto dai nostri padri e dai nostri nonni.
E la frase detta da una partecipante durante il viaggio di ritorno “Cosa facciamo adesso, li lasciamo qui?” esprime bene il sentimento di forte vicinanza, simile a quello che si vive dopo la tumulazione di una persona cara, ma applicabile anche in questo caso, in cui i caduti che ‘abbiamo lasciato’ in Russia, in una tomba chissà dove, sono stati conosciuti solo attraverso le lettere scritte dal fronte o attraverso i racconti di chi, al tempo della guerra, era ancora bambino: un sentimento fortemente generato da questo viaggio sui luoghi da essi percorsi, un sentimento che ha reso tutti veramente contenti – e molto! – dell’esperienza vissuta insieme.
Settembre 2018 – Paolo Picco